I RACCONTI
DELL’ARGINE
di Dante Zucchi
SINOSSI
La
raccolta “I racconti dell’argine” vuole essere un insieme di alcuni brevi
racconti legati alla mia terra, la Bassa modenese, dove l’argine del Secchia è
parte fisica ed emozionale del territorio.
Dall’argine
i contorni dell’orizzonte ti arrivano sfuocati come passati attraverso un
filtro magico di un qualche dio dispettoso che prova un sadico piacere nel
nasconderti la bellezza del creato.
Sull’argine
nascono amori e si spengono amori in un susseguirsi di nascita e morte
L’aria
calda e afosa della notte, una sbaraccata con gli amici, il pericolo per
l’esondazione del fiume, il terremoto, i ricordi, l’amore quale filo conduttore
: ecco gli sfondi per raccontare un
territorio.
Da
“Introduzione”
L’argine
non è solo un luogo fisico, ma un luogo di vita: su di esso si corre a piedi,
in bici, si passeggia; dentro di esso, nella golena, gli agricoltori piantano
pioppeti, alberi da frutto, vigneti, coltivano prati, gli innamorati ci fanno
l’amore, i filosofi ci vanno a pensare, i fotografi a fotografare, i pittori a
pitturare, gli scrittori a scrivere.
Un
tempo, quando le acque erano decenti, esistevano le stazioni elioterapiche e
tuttora qualcuno va a prendere il sole, stando ben attento a non toccare quelle
acque inquinate.
Quando
vieni qui non devi pensare di trovare qualcosa di speciale, non c’è niente di
speciale da guardare. Nonostante questo, ho fatto mio un aforisma nel quale mi
rispecchio: “Il momento più bello di una vacanza è il ritorno”, quando la
skyline che vedevi dal finestrino dell’auto non ti presentava cime svettanti al
cielo, laghi e spiagge incontaminate, boschi lussureggianti di frutti esotici,
ma lui, solo lui, il campanile, con la guglia sovrastata da una palla e una
croce, inconfondibile segno della tua terra, momenti magici che ti premiavano e
ti facevano dimenticare quella più o meno lunga assenza. Parlo al passato,
perché il terremoto ha fatto crollare quel simbolo e ti ha privato di
quell’immagine, metafora di tutto un territorio.
Da
“Giochi d’amore sul fiume”
Gironzolavo
in moto fra campi, stradine e argini, respirando l’aria di casa. Certo, era
tutta un’altra aria quella della California, ma la mia terra, il mio sole erano
quelli. Il profumo, le sensazioni dei campi fioriti non avevano paragoni,
certo, con quelli americani che si estendevano a perdita d’occhio, ma quelli
americani non erano miei, i miei erano quelli dell’argine, delle viti, del
grano di casa, del piccolo orto di papà, dei fiori sul davanzale della
finestra, dell’erba medica fiorita dietro casa quando mi alzavo. Un piccolo
mondo, piccolo sì, ma con tutti gli affetti e i profumi di famiglia che aveva
dentro.
Da
“ Dedicato a …”
Entrai e l’odore di alcuni ceppi
nel camino bruciacchiati, di solo due sere prima, mi colpì le narici. Era un
odore forte, pungente, aprii la finestra per cambiare aria. Mi avvicinai alla
cappa e accesi una sigaretta pensando al sabato notte precedente, quando lì
dentro eravamo almeno in una decina a farci la carne ai ferri, salame, pancetta
e a bere vino. I cadaveri erano belli allineati sul pavimento contro una parete
a simboleggiare la sbaraccata finita come sempre alle prime luci dell’alba a
colpi di grappa e bourbon, di quello schifoso che non piaceva, ma che qualcuno
insisteva a comprare, e alla fine ne rimaneva sempre in una bottiglia mezza
piena, allineata con le bottiglie scure di vino vuote.
…
ma a quell’evento annuale della maccheronata non si poteva mancare, soprattutto
quella volta: l’anno del terremoto, che aveva scombussolato tutti nel profondo
e tutti si aveva bisogno di compattezza, di aggregazione, di sentirsi solidali
e di stare insieme. Quale momento migliore che trovarsi tutti in piazza a
mangiare i maccheroni al pettine, con un buon ragù e un buon bicchiere di vino,
e ridere e scherzare? Quale antidoto migliore alla paura e all’inquietudine che
provoca una terra che ti trema sotto i piedi e fa crollare non solo i palazzi,
le chiese, le fabbriche, ma ti fa crollare dentro? Ormai erano passati tre
mesi, ma ognuno si sentiva ancora nelle orecchie i boati delle scosse e ancora
un portone sbattuto o l’avvio di una di quelle moto tipo Harley Davidson ti
facevano sussultare, perché erano uguali spiaccicate a quei botti, e l’angoscia
ti saliva per un attimo alla gola, ma poi l’onda della scossa non arrivava e ti
tranquillizzavi.
La ragazza si
fermò un attimo, lo guardò e ritornò sui suoi passi, lo accarezzò sul viso e
con gli occhi umidi, dopo un ultimo e leggero bacio sulle labbra, sussurrò:
«Mi sembra
impossibile averti trovato, Diego. Però è successo tutto troppo in fretta, ho
bisogno di stare sola, devo … devo ... Ti telefono io, ok?»
Diego rimase solo
sull’argine, guardò l’orologio della torre al centro del paese, era
mezzogiorno, e dopo qualche secondo la campana cominciò a rintoccare l’ora.
Chiuse gli occhi,
cercò di interiorizzare quel momento magico. Una luce, uno spiraglio di luce,
là, in fondo al tunnel. Due occhi grigi che lo guardavano e che avevano riso e
pianto insieme a lui in quella notte magica, in cui tutto il dolore e le
solitudini sembravano scomparsi, inghiottiti come per miracolo da un’anima
misericordiosa, che si era incarnata in una ragazza dagli occhi tristi ma con
tanta voglia di vivere. Aveva cullato, accarezzato il suo corpo e la sua anima.
Una scrittura molto coinvolgente
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